Cervelli in stampa: il Progetto Ceres e la nascita degli organoidi cerebellari

Cervelli in stampa: il Progetto Ceres e la nascita degli organoidi cerebellari

Tra le stanze sterili dell’Istituto Italiano di Tecnologia e nei laboratori disseminati tra Roma, Napoli e Aosta, sta prendendo forma una delle avventure più visionarie della biotecnologia contemporanea. Non si tratta di fantascienza, ma di una realtà scientifica concreta, alimentata da un finanziamento pubblico di oltre 126 milioni di euro e da una rete di collaborazioni senza precedenti. Il suo nome è Ceres Protocol, e non promette semplicemente di rivoluzionare la medicina personalizzata: punta a trascinarci in un futuro dove i nostri neuroni potranno essere stampati, osservati, riparati e, forse un giorno, potenziati.

Il cuore del progetto è un’immagine che potrebbe sembrare uscita da un romanzo cyberpunk: una stampante 3D non per plastiche o metalli, ma per cellule viventi. Non si parla di gadget da scrivania, bensì di macchine capaci di orchestrare l’autoassemblaggio delle cellule staminali pluripotenti indotte, le cosiddette iPSC, cellule adulte riprogrammate per tornare a uno stato embrionale. Da questo stato primordiale, guidate da nutrienti e condizioni di laboratorio calibrate al millimetro, le cellule si trasformano nella materia prima per costruire in vitro porzioni di cervello umano: strutture tridimensionali, dotate di connessioni sinaptiche e attività elettrica, vere e proprie repliche in miniatura del nostro sistema nervoso. Si chiamano organoidi cerebrali, ma in molti li definiscono già “mini-cervelli”.

Ciò che rende Ceres unico rispetto ai precedenti esperimenti di biostampa è il superamento delle strutture artificiali. Non servono più impalcature, né gel sintetici: le cellule stesse, grazie al loro innato potenziale di auto-organizzazione, si aggregano e formano tessuti complessi. È biologia che costruisce sé stessa, in una sorta di sandbox cellulare in cui le leggi evolutive guidano la forma e la funzione. Qui, il confine tra biohacking e arte si fa sottile, e la medicina comincia a parlare la lingua della manifattura additiva.

Alla guida di questa impresa c’è D³4Health, un consorzio di 28 partner tra università, centri di ricerca e aziende biotech, coordinati dalla Sapienza Università di Roma. È una vera alleanza scientifica, dove ogni partecipante contribuisce con tecnologie avanzate: intelligenza artificiale, ingegneria dei materiali, dispositivi indossabili, diagnostica predittiva. La rete di finanziamento arriva dal Piano Nazionale per gli Investimenti Complementari al PNRR, attraverso bandi a cascata gestiti dal Politecnico di Torino. In questo ecosistema distribuito ma interconnesso, Napoli si occupa della sperimentazione, Roma dell’analisi, Aosta del potenziamento delle linee cellulari. È un’Italia che fa squadra, decisa a ritagliarsi un ruolo guida nella medicina rigenerativa europea.

Ma il futuro che Ceres prefigura ha già un passato recente. All’inizio del 2024, un team internazionale della Keck School of Medicine (Università della California Meridionale) e del Caltech ha annunciato la creazione in vitro del primo organoide cerebellare umano, battezzato hCerO. Questo mini-cervelletto artificiale riproduce con incredibile precisione le caratteristiche morfologiche, molecolari e funzionali del cervelletto fetale umano. Stratificato, composto da oltre cento tipi cellulari — dalle cellule di Purkinje alle granulari — e dotato di connessioni sinaptiche funzionanti, l’hCerO rappresenta una pietra miliare nella biologia contemporanea.

Per arrivare a questo risultato, i ricercatori hanno simulato le condizioni del labbro rombico, la zona embrionale da cui originano le cellule cerebellari. Hanno perfezionato le colture cellulari fino a generare sferoidi che, in soli due mesi, mostrano stratificazioni laminari e attività elettrica registrabile. Non si tratta solo di strutture esistenti: sono strutture funzionanti.

Il valore di questi organoidi è immenso. Consentono di testare farmaci, studiare malattie come autismo, atassia cerebellare o medulloblastoma, e indagare le basi genetiche delle differenze individuali. Ma soprattutto, offrono una finestra senza precedenti sui meccanismi dello sviluppo neuronale umano, aprendo scenari prima impensabili: intervenire precocemente sui disturbi dello sviluppo, addirittura riprogrammando il destino delle cellule cerebrali prima della nascita.

Ed è proprio qui che si innesta il progetto Ceres. L’obiettivo non è confinarsi alla ricerca accademica, ma arrivare al letto del paziente, ai reparti ospedalieri, nelle mani di chi ogni giorno combatte contro malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson. Si prospetta un futuro in cui sarà possibile testare un farmaco su un modello personalizzato del nostro cervello, ottenuto dalle nostre stesse cellule, prima ancora di assumerlo. Un salto radicale verso una medicina su misura, capace di ridurre gli effetti collaterali e massimizzare l’efficacia delle terapie.

L’interfaccia tra scienza e futuro non è più solo un’idea, ma una bio-realtà in costruzione. Il Ceres Protocol avrà una durata prevista di 18 mesi, ma rappresenta solo il primo livello di una campagna più ampia, che ci porterà a confrontarci con interrogativi profondi: cosa significa essere umani in un’epoca in cui possiamo generare copie funzionali dei nostri organi in laboratorio? Dove finisce il corpo, e dove comincia la tecnologia?

Il traguardo finale, per ora, non esiste. Come accade in ogni buona distopia — o utopia, a seconda della prospettiva — ogni risposta generata da questi progressi scientifici apre nuove domande. E in questo equilibrio sottile tra possibilità e inquietudine, tra terapia e potenziamento, si gioca la prossima grande sfida della biotecnologia europea.

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